Socialismo o barbarie», scrisse Rosa Luxemburg, indicando militarismo ed espansione imperialista come campi interni ai processi di valorizzazione del capitale. Credo che l’evocazione luxemburghiana possa essere da noi tradotta, molto più modestamente, come «necessità dell’alternativa o putrescenza» della nostra stessa formazione sociale di fronte ad un tornante storico importante e torbido, segnato dal rapido decomporsi e declinare dell’impero berlusconiano; i cui colpi di coda saranno ceramente velenosissimi e pericolosissimi soprattutto per il lavoro e per la Costituzione, al di là degli esiti temporali della compagine governativa. Più che mai ora vanno respinte le sirene suadenti, le trappole delle «unità nazionali e delle larghe intese», dietro le quali emergono le logiche mercantili della Marcegaglia ed il fascismo aziendale di Marchionne (ha ragione Cremaschi). E’ tempo, più che mai, di una densa criticità anticapitalista; non massimalista o parolaia, ma molto netta, radicale, senza vuote affabulazioni populiste. Declina, infatti, forse con tempi troppo lenti e tentazioni di stampo fascistico, un sistema di potere che ha mutilato la stessa tenuta democratica del Paese, mettendone allo scoperto, come in una impietosa narrazione antropologica, un conservatorismo storicamente non rielaborato. La caduta della Prima Repubblica, di cui non siamo nostalgici, ma in cui comunque sopravviveva il dibattito politico basato su partiti di massa, ha condotto all’autorappresentazione, nel governo del Paese, dei poteri finanziari e confindustriali e alla «democrazia governante» (contrapposta alla democrazia organizzata e conflittuale dell’impianto costituzionale), voluta anche da tanta parte del centrosinistra che ha aperto la strada al tentativo presidenzialista di Berlusconi ed allo svuotamento del parlamento e delle assemblee elettive. Diciamo a Veltroni e a tanti altri che insistere nell’errore del maggioritario bipolare è solo una coazione a ripetere, un suicidio per la sinistra. E non dimentichiamo il ruolo politico dell’intreccio inestricabile tra economia legale ed illegale che è, oggi, finalmente, sulle prime pagine dei giornali. Il berlusconismo nasce così, riciclando il denaro sporco delle mafie e costruendo un nuovo saldo equilibrio politico con la borghesia mafiosa. A cui egli ha saputo sommare l’etnocentrismo leghista ed il razzismo istituzionale. Ciò ha prodotto la trasformazione, in tanta parte del proletariato, della coscienza di classe in coscienza di luogo, in ricerca del “capro espiatorio” nel migrante.
Oggi, di questo sistema di potere, sovversivo rispetto alla stessa legalità liberale, Berlusconi, che ne è stato costruttore, è anche ostaggio, un animale ferito, impazzito e, quindi, feroce. Il nostro uomo mugugna, blandisce, minaccia, si dibatte pericolosamente contro il lavoro, lo stato sociale, la Costituzione. Il nostro uomo mugugna, blandisce, minaccia, si dibatte pericolosamente contro il lavoro, lo stato sociale, la Cosituzione. Ma il suo declino, al di là dei tempi del governo, è segnato, perché non è solo personale; esso allude alla bancarotta del liberalismo. Un liberalismo che è stato declinato come un insieme perverso ed indistinto di licenze e di impunità. Licenze e impunità che coincidono con la negazione della trasparenza, della iniziativa politica aperta, dei diritti universali, del sistema delle garanzie. Viene negata la libertà come paradigma fondativo del contratto sociale, dello spirito laico e repubblicano. Berlusconi si dice continuamente promotore di libertà; ma, in realtà, in un rovesciamento del punto di vista, la sua libertà è libertà di sfruttamento, di delinquere, di essere mafioso senza essere intercettato. Per un paradosso, libertà significa, per lui, il suo contrario e cioè “segreto”: segreto di Stato, segreto istituzionale, segreto nel ricollegare poteri economici attraverso il cemento di nuove logge massoniche. Libertà diventa costruzione di un reticolo diffuso di sovversivismo antirepubblicano. Ha ragione Forgione, nell’intervista di eri l’altro a <+Cors>Liberazione<+Tondo>: quante volte abbiamo sostenuto, in commissione antimafia, che occorrevano rigorose norme di trasparenza abolendo il meccanismo dei subappalti, del massimo ribasso, «cominciando ad inserire il reato di autoriciclaggio»? E che facendo lo scudo fiscale si permette alle mafie la pulizia del denaro sporco? Maroni e Tremonti fanno finta di non capire e il Partito Democratico non ha compreso che siamo ben oltre i vecchi rapporti fra mafia e politica perché le mafie sono all’interno del processo contemporaneo di accumulazione capitalistica e ispirano, nello stesso tempo, il meccanismo della cosiddetta “antipolitica” berlusconiana. Sconfiggere, dunque, questo sistema di potere è il fine politico attuale. Questo è il livello alto della sfida oggi; bisogna esserne coscienti. Restare ingabbiati nelle retoriche giaculatorie del nostro spaesamento, continuando a piangerci addosso, ci fa apparire più simili ai protagonisti del “deserto dei Tartari” che a critici radicali di un sistema di potere che è entrato in crisi e che vogliamo sovvertire. E’ l’analisi della realtà che ci spinge a riprende l’iniziativa: Pomigliano, Melfi, l’acqua bene comune, le lotte dei precari, dei senza casa, dei terremotati, degli insegnanti: costruire i nessi del nuovo blocco sociale è il bandolo della matassa.
Giovanni Russo Spena
in data:16/07/2010
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venerdì 16 luglio 2010
Berlusconi e la bancarotta del liberalismo
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